Il Divo (recensione, frasi celebri)

Il divo - locandina Un film di Paolo Sorrentino. Con Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Piera Degli Esposti, Alberto Cracco, Lorenzo Gioielli, Paolo Graziosi, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo.
Genere Drammatico, colore 110 minuti. – Produzione Italia 2008.

Il divo di Paolo Sorrentino, come ritratto dell’uomo politico più longevo e potente d’Italia, raccontato negli anni – i primi Novanta – in cui guidò il suo ultimo governo, fu nominato senatore a vita, non riuscì ad essere eletto presidente della Repubblica (i suoi colleghi di partito gli preferirono Scalfaro) e dovette subire due processi: per associazione mafiosa a Palermo e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli a Perugia. Da cui uscì indenne.

Giulio Andreotti come incarnazione del Potere Assoluto, come lo specchio più veritiero per leggere la Storia dell’Italia, come il politico che meglio di tutti ci spiega che cos’è la (nostra) Politica. Niente metafore. Niente ideologie. La concretezza dei nomi e dei cognomi, dei volti riconoscibili: la scommessa di Sorrentino era rischiosa e spiazzante e per questo la sua riuscita è ammirevole e preziosa. Perché insieme a Garrone e a Munzi certifica l’esistenza di un cinema italiano finalmente adulto, autorevole, coraggioso.

Il divo si apre con la nascita del settimo governo Andreotti e si chiude con il suo rinvio a giudizio per mafia e assassinio, ma il film non vuole essere una ricostruzione cronachistica di quegli anni. Piuttosto mescola e intreccia, con uno stile insolito e sorprendente, pubblico e privato, impressioni e fatti, per restituire l’atmosfera di un periodo cruciale per la storia d’ Italia, quello in cui sarebbe nata Tangentopoli e sarebbe morta la Prima Repubblica ma soprattutto in cui il rapporto tra Politica e Paese sarebbe stato più scollato e volatile. Per questo è un film sull’idea di Potere e solo di conseguenza su chi, quel potere, lo incarnò al massimo grado. Sorrentino, che ha scritto da solo la sceneggiatura con la consulenza giornalistica di Giuseppe D’Avanzo, non procede per fatti o denunce, ma piuttosto per immagini, suoni e associazioni visive.

La cronologia mescola gli avvenimenti per lasciare all’occhio (più che alla memoria) il compito di guidare lo spettatore, affidando spesso alle donne – la moglie Livia (Anna Bonaiuto, maiuscola), la segretaria Enea (Piera Degli Esposti, altrettanto grande), una nobildonna (Fanny Ardant) – il compito di fare da controcanto alla politica e agli atti pubblici. Non tanto perché sia il privato la chiave con cui «svelare» i segreti di Andreotti, quanto perché quell’ambito permette al regista maggior libertà e invenzione. In questa logica, il grottesco (mai sottolineato come in Petri ma sempre ammorbidito dal sottotono della recitazione) diventa la chiave estetica per capire il vero volto di una Politica che altrimenti rischierebbe di ridursi a un campionario di gag: le camminate notturne per via del Corso, le confessioni in chiesa, la partita di caccia con Bontade, la serata a sentire Renato Zero in tivù con la moglie sono tutti momenti dove la grandezza dell’interpretazione di Servillo (una prova davvero immensa, la sua), dove quei volti, quelle pose, quelle parole (che lavoro sulla voce!) diventano altrettante chiavi per entrare nei misteri di Andreotti e del Potere. E lo «zoo» della sua corrente, guidata da un perfetto Bucirosso/Pomicino e da un inquietante Bucci/Evangelisti, diventa l’altra faccia del divo Giulio, il «letame che serve per far crescere gli alberi», come disse in una delle sue battute citate nel film.

Per questo, alla fine, la lettura politica del film non è affidata a qualche rivelazione estemporanea (bacio a Riina sì, bacio a Riina no), ma a una «confessione» verosimile: «La nostra, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo. E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io». Forse Andreotti non l’ha mai neppure pensato, ma il Potere sì. E in Italia l’ha messo anche in pratica. (Paolo Mereghetti)

Il Divo, protagonisti Sicuramente non un film per tutti e che potrebbe risultare poco comprensibile per chi non sia nato almeno negli anni ’70 ed abbia respirato (e ‘studiato’) il clima politico italiano dei successivi ’80 e ’90.

L’uomo di Stato che è stato definito di volta in volta, la Sfinge, il Gobbo, La Volpe, il Papa nero, Belzebù e, giustappunto, il Divo Giulio si prestava sicuramente a divenire simbolo di una riflessione sui mali del nostro Paese. Sorrentino riesce nell’operazione: inizia da subito con una cifra di grottesco che diventa la sua personale lettura del personaggio e di coloro che lo hanno circondato e sostenuto. Proprio grazie a questa scelta stilistica può permettersi, nell’ultima parte del film, di proporci le fasi processuali per l’accusa di mafia grazie a una visione in cui surreale e reale finiscono con il coincidere.

Come disse una volta Montanelli, delle due l’una: o Andreotti è il più grande criminale della storia d’Italia, o è il più grande perseguitato. Ma Andreotti forse è entrambe le cose, perché il protagonista di Sorrentino è un uomo che ha consacrato tutto se stesso al Potere. Un politico che ha saputo vincere anche quando perdeva. Un essere umano profondamente solo che ha trovato nella moglie l’unica persona che ha creduto di poterlo conoscere.

Infine, è doveroso rimarcare la splendida interpretazione di un Servillo capace di cancellare qualsiasi remota ipotesi di imitazione per dedicarsi invece a uno scavo dell’interiorità del personaggio.

Un film che consiglio per gli amanti dei giochi di potere, dove i deliziosi dettagli e lo stile ne rendono intrigante, seppur inquietante trattandosi di fatti realmente accaduti, il racconto.

Sullo stesso genere, consiglio il film “I banchieri di Dio – Il caso Calvi” di Giuseppe Ferrara con Omero Antonutti, del 2002.
Voto: 7,5

 

“Se non potete parlare bene di una persona non parlatene”
(Rosa Andreotti)

Il Divo – trailer

Frasi celebri di Giulio AndreottiIl Divo - Toni Servillo

  • A pensar male del prossimo si fa peccato, ma ci si indovina
  • Il potere logora chi non ce l’ha.
  • Il vero giudizio viene dal basso.
  • Non ho vizi minori.
  • Mi dicono che quando gli riferivano di un sacerdote in crisi, Pio XI domandava come si chiamasse la signora.
  • Mi permetta sua Santità ma lei non conosce il Vaticano.
  • La cattiveria dei buoni è pericolosissima.
  • Ho la coscienza di essere di statura media, ma se mi giro attorno non vedo giganti.
  • Ho il vantaggio di appartenere sia al Vecchio che al Nuovo Testamento.
  • Io non ho programmi personali ma aspirazioni. Anzi una sola aspirazione, quella di morire in grazia di Dio, il più tardi possibile.
  • Le sentenze dei giudici non si discutono. Si appellano.
  • La dittatura più difficile a odiarsi è la propria.
  • Spiegare l’Italia agli stranieri non è sempre facile. Da noi i treni più lenti si chiamano accelerati, e il Corriere della Sera esce al mattino.
  • A parte le guerre puniche mi hanno attribuito veramente tutto.
  • Non bisogna mai lasciare tracce.
  • E’ stato giustamente detto che l’italiano che ha realizzato di più è stato Cristoforo Colombo che non sapeva dove andava ed ignorava dove fosse arrivato. Non è un esempio da imitare ma forse una ragione di confronto.
  • Se è vero che un cristiano deve porgere l’altra guancia, è anche vero che il Signore, con molta intelligenza, di guance ce ne ha date soltanto due.
  • Non ho mai creduto che fosse possibile distinguere gli uomini in due categorie, angeli e diavoli. Siamo tutti medi peccatori.
  • Sappiamo dal Vangelo che quando fu chiesto a Gesù che cosa fosse la verità, lui non rispose.

Andreotti si pente sul Divo

(8 giugno 2008) In un’intervista rilasciata a Tv Sorrisi e canzoni il senatore a vita fa marcia indietro. “Ho esagerato, le cose brutte sono altre…”

ROMA Sarà il nome del settimanale che lo ha intervistato – Tv Sorrisi e canzoni – a spingerlo a un atteggiamento più rilassato, leggero. Sarà che perfino per un ottantanovenne come lui il tempo porta consiglio. Sarà che tiene a non scalfire in maniera irreparabile la fama di cinico e distaccato osservatore della realtà (compresa quella che lo riguarda). Qualunque sia il motivo, il fatto certo è che Giulio Andreotti cambia idea: interpellato ancora una volta sul Divo, il film di Paolo Sorrentino premiato a Cannes e centrato sulla sua figura, fa una vera e propria marcia indietro. “Non è una mascalzonata – dichiara – le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello…”.

Se non è un vero e proprio pentimento – impossibile, da un personaggio complesso e sfaccettato come lui – sicuramente è una correzione di tiro. Rispetto a quando, il 14 maggio scorso, il senatore a vita vide in anteprima assoluta la pellicola, insieme al cronista di Repubblica Goffredo De Marchis: guardando le sue vicende – trasfigurate, ovviamente, dalla sensibilità e dallo stile originalissimo di Sorrentino – non riuscì a trattenere la stizza, la rabbia, l’insofferenza. “E’ cattivo, è maligno”, sentenziò: una “mascalzonata”, appunto.

Insomma, una reazione forte. Da parte di un uomo politico che sulla sua imperturbabilità ha costruito la propria leggenda. Certo, già qualche giorno più tardi, giunge una parziale rettifica: interpellato ancora una volta da Repubblica, dopo il premio speciale della Giuria ottenuto a Cannes, il sette volte presidente del Consiglio commenta con una frase tipicamente andreottiana. Ovvero, “meglio essere criticato che ignorato”.

Adesso, però, la correzione di tiro diventa totale. Intervistato da Tv Sorrisi e canzoni (per il numero in edicola da domani) il senatore a vita ammette di aver cambiato idea: “Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre”, spiega. E poi via, a rievocare i tre Telegatti ricevuti (se ne parla e li vediamo anche nel film di Sorrentino): “Forse è per vanità – racconta – ma sono sempre stato convinto che chi fa politica deve avere anche cura della propria immagine. La politica è comunicativa, più uno è conosciuto e meglio può fare il politico”. Il settimanale, invece, bacchetta Sorrentino: sullo schermo vediamo sei Telegatti, in realtà sono solo tre. Replica del regista: “Sono trofei belli esteticamente e mi piaceva metterli in scena. Ma sul numero esatto non saprei; se dite che sono solo tre avrete senz’altro ragione voi”.

Più interessanti, però, sono le frasi di Sorrentino sulla rabbia andreottiana alla visione della pellicola, rilasciate qui a Roma durante una conferenza stampa post-Cannes: “Sono contento. Non della sua reazione stizzita, ma del fatto che una reazione c’è stata”.

(di CLAUDIA MORGOGLIONE; repubblica.it)